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Il medico ex sindaco che ritorna dalla pensione per combattere il Covid-19

19.04.21

La testimonianza di Paolo Allemano, medico ed ex sindaco del Borgo Autentico di Saluzzo che è rientrato dalla pensione per combattere la pandemia

Saluzzo (CN), 17.000 abitanti ai margini della Pianura Padana più occidentale, dove il terreno alza la voce e si fa collina prima e montagna poi. Una città impregnata di storia e cultura grazie all’antico e omonimo Marchesato di cui è stata capitale fino al 1548. Un Borgo Autentico che sa guardare al futuro con occhi vivaci e dinamici, gli stessi che brillano ancora oggi nel volto di Paolo Allemano, sindaco per dieci anni (dal 2004 al 2014)  e consigliere regionale per un mandato.

Una passione travolgente per la politica e l’amministrazione, una vocazione profonda per la medicina, sua compagna di vita per oltre quarant’anni: medico ospedaliero fino al 2016, poi la meritata pensione e le ultime consulenze come volontario a contratto. Ma nel marzo del 2020 la pandemia da Covid-19 esplode in tutta Italia e lacera la quotidianità sanitaria del Piemonte. La Regione cerca di correre ai ripari reclutando il personale disponibile e provando a coinvolgere anche i professionisti in quiescenza.

Allemano non esita un solo istante e risponde immediatamente alla chiamata. Rientra dalla pensione e ritorna laddove aveva lasciato, nel reparto di Medicina Interna dell’Ospedale di Saluzzo. Oggi, a distanza di un anno, Paolo Allemano è ancora là, inamovibile a curare i pazienti, ad aiutare i colleghi, ad onorare la professione. Gli abbiamo quindi chiesto di parlarci della sua esperienza e del suo impegno personale nella lotta alla pandemia. Con il suo animo sempre rivolto verso il prossimo, l’Amico Allemano ci ha risposto così.

La pandemia ci ha sicuramente distanziati. Il distanziamento non è stato necessariamente un male nella misura in cui ha aumentato l’igiene degli ambienti e garantito uno spazio vitale alle persone. Ne è stata una prova la scomparsa dell’epidemia influenzale. Ma per alcuni l’isolamento si è trasformato in una spirale recessiva irreversibile: solitudine, rottura traumatica di legami, passaggio tra vita e morte privato della ritualità che consente di elaborare il lutto.

Penso a quelle coppie che hanno raggiunto insieme il pronto soccorso e sono state separate senza più incontrarsi; penso a marito e moglie o a figlio e padre, ricoverati uno in corsia e l’altro in rianimazione; penso a chi, da casa, sapeva cosa fosse vitale per la tenuta psichica del famigliare ricoverato, ma non poteva fare altro se non attaccarsi al telefono, strumento che non raggiunge chi è costretto a respirare nel casco e che raramente coglie le emozioni profonde; penso ai nipoti che non hanno più visto i nonni se non in una immagine digitale da cui trasparivano volti emaciati, circondati da corpi protetti da tute bianche e visori.

Tanta sofferenza. Passata e presente, cui si cerca in qualche modo di portare rimedio: sorridendo con gli occhi, tenendo le mani, facendo dell’ironia o facendo dei disegni vezzosi sulle tute. E spesso funziona. Ma non quando l’isolamento aveva già prodotto i suoi effetti prima del COVID.  La pandemia è infatti stata spietata nel rivelare la qualità della vita delle persone: chi si sentiva da anni parcheggiato in un luogo che non aveva scelto, privato di stimoli affettivi, non ha reagito, se n’è andato in silenzio senza nulla chiedere perché da troppo tempo non aveva più chi lo ascoltasse o non aveva un luogo amato cui tornare. Qualcuno ha avuto modalità di comunicazione ostili non riuscendo, nel poco tempo a disposizione, a modificare il paradigma della propria esistenza.

A prescindere dall’età delle persone colpite, chi non ha curato gli affetti si è trovato molto più solo, con punti di riferimento traballanti se non del tutto assenti. Chi ha curato il patrimonio più delle relazioni è stato ripagato con la stessa moneta: famigliari che si escludevano a vicenda, potenziali eredi che chiamavano da luoghi remoti con toni minacciosi. Si è arrivati anche a relazioni filtrate da procuratori legali, a famigliari che usavano nei confronti dei sanitari il linguaggio degli odiatori seriali, a pazienti che hanno abilitato un solo referente tra i famigliari ricorrendo all’impiego di una parola d’ordine.

Tra le molte cose che la pandemia ha svelato (sul sistema produttivo, sul rapporto malato tra uomo e natura, tra uomo e animali, sulle diseguaglianze sociali) la più penosa e intima è stato proprio l’evidenziare come molte persone vivessero già un look down personale, assai più temibile di quello imposto dalla pandemia.

Se la campagna vaccinale è la nostra ancora di salvezza, se la Politica è il luogo deputato a provvedere ai ristori economici e a ripensare al modello di sviluppo, tocca a ognuno di noi, nessuno escluso, ripensare ai valori su cui si fonda la vita, impegnarsi perché le relazioni siano autentiche, rispettose, inclusive. Non torniamo a quella solitudine, a quel deserto affettivo, a quella scala di valori che non tiene nel giusto conto ciò che dà senso alla vita. Se sarà così, avremo pagato un prezzo altissimo senza apprendere nulla”.